Filu ‘e ferru: la tradizione sarda del distillato.

Non è grappa. Non è solo acquavite. E’ un distillato, questo sì, ma il filu ‘e ferru ha una marcia in più: è intriso di tradizione sarda. Questo liquore, prodotto prevalentemente in provincia di Oristano, ha una curiosa storia che ben descrive la natura umana e la ricerca del piacere attraverso la buona tavola o, meglio, del buon bicchiere.

Il curioso nome deriva dal metodo utilizzato per nascondere il superalcolico soggetto ad una elevata tassazione: una volta distillato clandestinamente, questo veniva versato all’interno di bottiglie legate ad un filo di ferro. Per evitare di venire scoperti, le bottiglie venivano interrate e il filo di ferro serviva come traccia per dissotterrarle una volta scampato il pericolo. Oggi la produzione è disciplinata dalla legge, che vieta la distillazione casalinga e garantisce standard di qualità e sicurezza per quanto riguarda la produzione industriale.

La materia prima è il vino o la vinaccia rigorosamente sarda che viene distillata due volte, togliendone il capo e la coda per eliminare alcune sostanze sgradevoli. Dopo aver trascorso un anno in botti di rovere si ottiene del Filu e’ Ferru al 40% di alcool, ricco di quegli aromi particolari che ben si inchiodano nella nostra memoria dopo il primo sorso.

L’interesse per questo distillato sta crescendo notevolmente tra gli estimatori, ma può essere un ottimo punto di partenza per chi vuole scoprire l’alcolico mondo di grappe e acquaviti. Con l’export dei distillati in aumento ma brutti risultati sul mercato interno, è bene andare a riscoprire le nostre produzioni e magari dare una mano all’economia dell’isola ancora in convalescenza per il violento nubifragio della scorsa settimana.

Pubblicità

La “Madonna di Foligno” di Raffaello arriva a Milano.

https://i0.wp.com/www.artapartofculture.net/new/wp-content/uploads/2011/08/1-Madonna-di-Foligno.jpgIntorno al 1511, Raffaello staccò definitivamente il pennello da una pala d’altare commissionatagli da Sigismondo de’ Conti, un segretario di papa Giulio II. Questi voleva rendere grazie alla Madonna per un miracolo avvenuto in un suo sogno: la sua casa di Foligno era rimasta intatta dopo essere stata colpita da un fulmine. Per questo motivo, Conti commissiona un’opera ad uno dei migliori pittori della Roma di quel tempo.

La Madonna di Foligno, questo il nome del dipinto, presenta una composizione piramidale e una buona resa cromatica ottenuta con i colori ad olio. La Madonna tiene in braccio il bambino e domina cinque figure nella parte inferiore del dipinto. In piedi a destra troviamo San Girolamo che presenta  il committente alla Vergine poi un angioletto al centro, San Giovanni Battista in piedi e infine San Francesco d’Assisi inginocchiato. Soffermandosi sui dettagli, si possono notare i cherubini che circondano la figura della Madonna confondendosi con le nuvole su cui poggia la coppia, mentre appena sopra la città compare un arcobaleno, simbolo della protezione divina. Il capolavoro di Raffaello, normalmente custodito nei Musei Vaticani, si trasferisce temporaneamente a Milano.

Un anno dopo la mostra di Amore e Psiche, la più visitata in Italia nel 2012, a Palazzo Marino verrà esposta gratuitamente questa pala d’altare dal 28 novembre 2013 al 12 gennaio 2014. La mostra è resa possibile da Eni che, in collaborazione con il Comune di Milano, unisce le sontuose stanze di Palazzo Marino ai capolavori dell’arte italiana per portare avanti una preziosa collaborazione pubblico-privato. Non resta quindi che mettersi in coda e godersi una splendida opera dipinta da un grande maestro rinascimentale.

“Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni. 1913.

Nelle nostre tasche, di fianco alla onnipresente monetina da 1 centesimo di euro, spesso troviamo quella da 20 cent. Se ci capita quella italiana, vediamo una figura familiare, ma non del tutto chiara. Per capirla dobbiamo fare un passo indietro nel tempo.

Nel 1909 Filippo Tommaso Marinetti scriveva nel Manifesto del Futurismo: “Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.” I rivoluzionari concetti esposti nel manifesto si diffusero presto negli strati della società, e gli artisti ne rimasero stregati.

Umberto Boccioni, nato nel 1916 a Reggio Calabria da genitori romagnoli, non era rimasto sordo alle aspirazioni futuriste di chiudere con il passato e vivere intensamente il nuovo mondo invaso dalle macchine e reso ebbro dalla velocità e dalla potenza della società tecnologica. Nel 1907, dopo un periodo trascorso a Roma e lunghi viaggi tra Venezia, Parigi e alcune città russe, Boccioni si trasferisce a Milano. Qui si immerge nell’ambiente divisionista e incomincia a frequentare Marinetti. Sotto queste nuove influenze scrive due manifesti: il Manifesto dei pittori futuristi e il Manifesto tecnico del movimento futurista. L’artista romagnolo si è dedicato alla pittura e alla scrittura ma l’ambito dove il genio si è rivelato è stata la scultura. Nel 1913 crea una scultura in gesso chiamata Forme uniche della continuità nello spazio.

Negli anni successivi vengono forgiate delle copie in bronzo che oggi si trovano al Museo del Novecento a Milano, alla Kunsthalle di Mannheim, al Tate Modern di Londra e al Metropolitan Museum di New York. Boccioni con la sua scultura ha chiuso con una tradizione scultorea radicata dei secoli, sconvolgendone le linee in perfetto stile futurista.

La scultura raffigura una figura antropomorfa in torsione mentre avanza fiera in avanti, una gamba davanti all’altra. Le forme, come plasmate dal vento, rendono l’idea di un dinamismo forte e fiero. La sapiente tecnica nel giocare con ombre e curve giustifica chi vede in quest’opera una delle opere migliori prodotte dal futurismo nell’arte. Per molti di noi è più facile vedere l’opera al nuovo museo di Milano dedicato al secolo appena terminato, ma chi ama Boccioni ed è intriso di essenzialismo può visitare l’originale in gesso al Museo di Arte Contemporanea di San Paolo del Brasile.

Alla luce di tutto ciò è più facile capire le ragioni per cui è stata scelta questa scultura come figura sulle poche monete della nostra valuta: rappresentare un paese che in molte epoche, nell’arte ma non solo, ha saputo mettersi in discussione e dare luce a grandi capolavori.

“Oh mia bela Madunina” di Giovanni D’Anzi. 1934.

Passeggiando a Milano per le vie del centro di sera, accarezzati da una leggera brezza alpina, ci si può imbattere in grossi viali abbelliti da palazzi settecenteschi. Guardando un po’ più là, tra le antenne dei nuovi grattacieli in costruzione, si distingue un puntino giallo: la Madunina.

In cima alla guglia, tutta sola e superata in altezza da edifici moderni, la Madonnina vigila sui milanesi storici e sui nuovi arrivati. Chi in chiesa ci va e chi non ci va si sente comunque a casa quando vede questa splendente statua in cima al proprio Duomo.

Ora che i restauri stanno volgendo al termine la si può ammirare in tutta la sua bellezza e non si può fare a meno di fischiettare spensierati “Oh mia bela Madunina“, canticchiando in milanese grossolano.

La canzone è stata scritta dal pianista Giovanni D’Anzi nel 1934, a cui veniva chiesto di suonare canzoni napoletane dai nuovi immigrati del Sud Italia. E allora ecco una canzone dal tono ironico ma che è anche un inno a quella parte scherzosa di una grande città, quella che D’Anzi definiva, non a torto, un gran Milan.

L’evoluzione della Vespa dal 1943 al 2013.

Oggi andare in giro con una Vespa d’altri tempi è un lusso che pochi si possono permettere. L’ASI predispone addiritura un registro di moto d’epoca, un meccanismo burocratico che tutela un prodotto entrato nella storia d’Italia parallelamente al boom del dopoguerra. L’origine del nome lo si fa risalire ad un acronimo (Veicoli Economici Società Per Azioni) ma chi ci vuole vedere più poesia sostiene che Enrico Piaggio, dopo aver sentito il rumore prodotto dal motorino abbia urlato: «sembra una vespa.

Era il 1946 quando è stato brevettato il modello progettato dal geniale ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio, e da allora la Vespa è entrata nell’immaginario comune. Per noi millennials la Vespa è una sola. “Abominio!” Direbbe qualcuno. La Vespa è una famiglia, allargata, i cui “figli” seguono la moda del momento e la creano. Cambiano le linee, si alza la sella, le ruote si allargano. Come fare per seguire le trasformazioni del motorino per antonomasia? Ecco che i parigini Nomoon ci vengono in soccorso presentandoci Vespalogy: un video davvero ben fatto sull’evoluzione del celebre modello.

Gli operai Piaggio in mostra.I creatori ci tengono a sottolineare che non si tratta di una pubblicità, bensì di una dichiarazione d’amore per un motorino che ha conquistato l’Italia e il mondo. Una bella ventata di aria fresca di questi tempi per ricordarci che anche noi sapevamo e sappiamo fare grande industria, quella che crea prodotti innovativi che piacciono a noi e a chi ama il nostro stile di vita.

Un anno di Italiaiocisono.

Oggi, 14 novembre 2013, è un giorno importante per Italiaiocisono: si festeggia il primo anno di età del blog. Centoquarantasette articoli fa, con “Incomincia un viaggio nasceva un’avventura che mai avrei pensato potesse raggiungere così tante persone ed essere così condivisa. Italiaiocisono è figlia del proprio tempo. Ognuno di noi avverte il potente fascino di un grandissimo patrimonio materiale e immateriale, impossibile da tenere dentro di noi e non condividere con il mondo intero. Ed ecco quindi uno strumento, modesto nei numeri ma fortissimo nelle convizioni e nella partecipazione, che si è trasformato in una grande comunità dove discutere del nostro tempo e del nostro impegno a conservare e ampliare l’eredità di millenni di arte.

Venendo ai numeri, ad oggi si contano 2150 iscritti tramite WordPress, 216 su Twitter, e altri iscritti sulle piattaforme dove è possibile trovare Italiaiocisono. Le visualizzazioni sfiorano le 64.000 pagine, arricchite da quasi 1.400 commenti, con una media di 100 utenti unici giornalieri dai paesi più impensabili del mondo oltre che dall’Italia. Il viaggio, cui ho fatto riferimento nel primissimo articolo, è ancora in corso e proprio oggi abbiamo raggiunto una meta importantissima. Grazie a voi lettori, questa genuina voglia di cultura italiana e di valorizzazione assume un altro ordine di grandezza. La mia profonda gratitudine va a tutti voi, e colgo l’occasione per ricordarvi che in ogni momento potete proporre migliorie o dare suggerimenti inviando una mail all’indirizzo che trovate nella pagina contatti.

Spegnendo la prima candelina faccio fatica a immaginare tutti i luoghi in cui Italiaiocisono è stato letto e mi chiedo se mai un’iniziativa di questo genere possa veramente fare la differenza in un grande paese sordo al richiamo della cultura. Questa comunità è nata da un sogno ad occhi aperti di uno studente innamorato della parte migliore dell’Italia, e spero possa ispirare e avere ancora la forza per riscoprire la bellezza eterna di un paese a cui, purtroppo, piace farsi del male.

Grazie a tutti.

Lardo di Colonnata, l’antico salume toscano.

Addentare un pezzo di pane ripeno di Lardo di Colonnata, seduti su una delle panchine che affollano i belvedere sulle montagne scavate attorno a Massa Carrara è un trionfo sensoriale difficile da dimenticare. L’esperienza gustativa di questo prezioso alimento è molto intensa: le spezie e gli aromi sciolti nel tiepido e abbondante grasso si spandono armoniosamente nel nostro palato.

L’origine del Lardo di Colonnata è forse da ricercare al tempo dei Comuni, anche se c’è chi li fa risalire agli Antichi Romani o agli Antichi Greci. Dal 2004 è protetto dal disciplinare IGP, che ne limita la produzione nei pressi di Colonnata, una frazione di Carrara. Qui le cave di marmo fanno da sfondo al paesaggio e le troviamo in ogni aspetto della vita del luogo: proprio il marmo è utilizzato per creare le vasche di stagionatura del Lardo, dette conche. Il disciplinare impone che la carne provenga da suini di alcune regioni del nord e centro Italia, e che il taglio utilizzato sia la parte adiposa sulla schiena del maiale.

Nelle conche di marmo incomincia la stagionatura, con un articolato sistema di insaporimento con spezie: dopo aver strofinato la parte con aglio vengono aggiunti sale, rosmarino, pepe, aglio sbucciato e occasionalmente alcune spezie dall’anice stellato al coriandolo. Una serie successiva di aggiunta di spezie precede la chiusura della conca con una lastra di marmo. Qui il saporito salume riposa per sei mesi, abbastanza perchè tutto il buono delle spezie venga trasferito al grasso.

Il consumo può avvenire tagliando a fette sottili e scaldandole appena perchè si sciolgano, altrimenti può essere usato per preparare ricette a prova di osteria. Il Lardo di Colonnata è un alimento che è tanto buono quanto poco salutare, vista la percentuale altissima di grassi e quindi calorie: circa 900 kcal per 100 grammi. Tuttavia questi numeri non ci spaventano, e come al solito un consumo secondo buonsenso fa sì che questo salume richiami all’attenti tutte le nostre papille gustative e faccia scivolare la nostra mente sui marmi bianchi delle splendide montagne su cui viene concepito.