La Pratica della Mercatura di Francesco Balducci Pegolotti. XIV secolo.

Di Sardigna non s’osa trarre argento in piatte però che tutto si conviene mettere nella zecca del signore per battere la moneta del signore, ed è pena capitale a chi sbolzonasse la muneta di là, cioè del paese di Sardigna.

Francesco Balducci Pegolotti, nato nel 1310, era uno dei tanti mercanti fiorentini del periodo di Dante che contribuirono alla crescita economica della città e alla nascita di un nuovo soggetto economico: la borghesia mercantile. Pegolotti era un uomo d’affari della Compagnia dei Bardi, e per gestirne gli interessi doveva viaggiare. Viaggiare molto. Lo troviamo infatti a Cipro, ad Anversa, a Famagosta, e a Londra, in cui si è occupato di dirigere filiali e stringere accordi commerciali favorevoli alla Compagnia.

Pegolotti, come il buon Marco Polo, era un ottimo osservatore ma a differenza del collega veneziano non si perdeva in fantasticherie. Le descrizioni delle rotte commerciali, unità di misura, prezzi e alcuni consigli di natura finanziaria sono raccolti nella grande opera conosciuta come Libro di divisamenti di paesi e di misuri di mercatanzie e d’altre cose bisognevoli di sapere a mercatanti, noto più brevemente come Pratica della mercatura

Purtroppo non esiste una versione autografa, ma ci è giunta una copia di Filippo di Niccolaio Frescobaldi risalente al 1472. Questo manoscritto, non troppo conosciuto, contiene un vero e proprio capolavoro di contabilità e di informazioni socio-economiche, non ristretto ad un solo popolo. Una vera e propria instantanea su tutto il mondo economico europeo e asiatico dopo la ripresa e la rifioritura degli scambi commerciali a livello continentale. Non sarà certo piacevole come leggere Il Milione, ma siamo sicuri che uno studio approfondito della Pratica della mercatura possa rivelare importanti dettagli di un mondo affascinante alle prime prese con il neonato capitalismo.

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Il 150esimo anniversario di Giuseppe Gioacchino Belli, il poeta della Roma popolare.

Er lacchè dder ministro San-Tullera,
pe ddà a vvedé cch’è una perzona dotta,
disce c’a Ffrancia accant’a ’na paggnotta
ce nassce un omoe cche sta cosa è vvera.

Mettétela addrittura in zorbettiera
sta cazzata,e soffiatesce ché scotta.
Dunque un omo ch’edè? ’na melacotta,
un fico, ’na bbriccocola, ’na pera?!

Pe cquant’anni sò scritti in ner lunario
da sí cc’Adamo se strozzò cquer pomo,
nun z’è vvisto accadé tutt’er contrario?

Lui nun parli co mmé cche ffo er fornaro.
Che nnaschi una paggnotta accant’a un omo
sò cco llui, ma cquell’antra è da somaro.

Così recita Er Fornaro di Giuseppe Gioacchino Belli, uno dei 2279 sonetti raccolti nei Sonetti Romaneschi. Questo poeta, il cui nome completo è Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli, è uno dei più famosi nella storia della città. I sonetti composti nel dialetto locale fanno parte di una vastissima produzione e la volgarità che contraddistingue buona parte di questi componimenti ricorda vagamente quella di Carlo Porta.

Perchè rispolverare Belli? Primo, perchè attraverso le poesie ci racconta tutto il popolo della Roma ottocentesca, con i propri vizi, le proprie imprecazioni ma anche diverse perle di saggezza popolare; secondo, perchè quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dalla sua scomparsa.

Sicuramente per affrontare le opere di questo poeta sboccato bisogna avere una mente aperta: qualche lettore o lettrice si potrebbe scandalizzare con facilità. Tuttavia, tra un sonetto e l’altro, questo perfetto romanaccio non ci fa mancare qualche risata e qualche riflessione.

Il “Nuovo Galateo” di Melchiorre Gioia. 1802.

Nell’Italia dell’epoca napoleonica, per un breve periodo è esistita la Repubblica Cisalpina, istituita da Napoleone sull’onda degli stravolgimenti provocati dalla Rivoluzione Francese. Questo importante evento storico, con il proprio carico ideologico,  è andato ad intaccare ogni aspetto della società provocando una grande trasformazione che andava in qualche modo incanalata e che doveva essere basata su regole precise.

A questo scopo, il piacentino Melchiorre Gioia ha ben pensato di redigere il “Nuovo Galateo” in tre edizioni (qui l’opera completa), a partire dal 1802. In questo scritto, che punta alla civilizzazione dei Cisalpini, Gioia tratta i diversi aspetti della vita dell’uomo: la “Pulitezza dell’uomo privato”, “Pulitezza dell’uomo cittadino”, “Pulitezza dell’uomo di mondo”. Questi concetti vengono rivisti nelle edizioni successive, ma rimangone comunque il filo logico dell’autore: il comportamento eticamente corretto in privato e in pubblico contribuirebbe a migliorare la società.

Stando alle critiche dell’abate Antonio Rosmini, che ha crititicato Melchiorre Gioia definendolo ciarlatano, possiamo concludere che qualche elemento di novità fosse contenuto in quest’opera. Si, perchè il “vecchio” e conosciuto Galateo overo de’ costumi è stato scritto da Giovanni Della Casa: forse il severo abate si spaventava all’idea che l’etica sfuggisse dalle mani della Chiesa. O forse perchè lo scrittore emiliano si faceva pagare dai potenti per elogi in loro favore. Moralizzatore da quattro soldi o innovatore? Non tocca a noi rispondere. Per quanto riguarda l’opera, il “Nuovo Galateo” è scorrevole e interessante e una cosa è certa: il buon Melchiorre sapeva scrivere.

“Io non ho bisogno di denaro” di Alda Merini. 2003.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti….
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

È difficile commentare una delle grandi poesie di Alda Merini senza intaccarne la purezza. Ormai sono passati quasi quattro anni dalla sua scomparsa, ma la sua poesia rimane ancora forte come l’animo di questa donna, nata in una Milano che tanto l’ha ispirata e che al contempo ha reso fiera. Una città percepita dal resto del mondo come nebbiosa e dal cuore freddo, ma che la Merini ha scosso nel profondo con la passione ardente della poesia.

Guai a cercare di rinchiudere questa sciura dentro categorie preconfezionate! Non dimentichiamoci del suo “Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita”. Proprio per questo ognuno può scoprire la propria Alda nel mare sconfinato della sua produzione, e imparare a vivere con l’intensità di quest’intima maestra di vita.

“La Sera Fiesolana” di Gabriele D’Annunzio. 1889.

Gabriele D’Annunzio è uno di quegli uomini che nascono una volta ogni secolo, fanno un gran polverone e se ne vanno portando con se tutta un’epoca a cui hanno dato un carattere. Questo è l’uomo del Volo su Vienna, dell’Impresa Fiumana, dell’Irredentismo spinto e del Fascismo agli albori.

Di lui s’è detto di tutto. Si passa dai grandi elogi della borghesia che s’accalcava per vedere autografato la propria copia de Il Piacere, alle accuse di altre componenti della società che gli davano del guerrafondaio schiavo del proprio ego smisurato. Molti in quell’epoca volevano scrivere come faceva lui, affollavano teatri colonizzati dai suoi drammi e si riempivano le case di costose chincaglierie che solo gli esteti potrebbero acquistare.

La storia non ha nè premiato nè condannato quest’uomo dalla personalità unica, e noi che ci occupiamo di cultura passiamo in rassegna delle opere che ci ha lasciato.

Recitata dal buon vecchio Gassman, oggi ascoltiamo  “La sera fiesolana”. Siamo nel 1889, in pieno Periodo Romano, anno in cui D’Annunzio compone questa poesia ed fa stampare Il Piacere. Non male come annata per il Vate, la cui carriera da questo momento in poi è tutta in ascesa.

Non siamo a scuola ed evitiamo commento e parafrasi, piuttosto cerchiamo di cogliere nella poesia gli eccessi di quel periodo, grazie ad un poeta che alla fine è stato voce di tutto un popolo in fermento.

“Alla sera” di Ugo Foscolo

Pochi poeti riescono a rendere trasparente l’animo umano e le energie tumultuose che lo agitano nei momenti di grande intensità emotiva.

Il grande Foscolo ci dona questo sonetto e ci fa assaporare la placidità della sera, la fine dell’esistenza, di fronte alla lotta dei profondi sentimenti. L’azione distensiva, quasi ultraterrena, del vespro.

Vittorio Gassman nobilita il componimento con questa lettura, e l’unione dei due ci regala un’opera di rara bellezza.

Il Calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi

Le librerie polverose di casa serbano sempre qualche sorpresa per chi le rispolvera. Oggi parliamo de Il Calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi. Questo autore non ha un passato illustre come altri scrittori contemporanei e non è troppo conosciuto nella narrativa italiana nonostante abbia sapientemente raccontato un pezzo d’Italia. In chiave vagamente cinica dipinge l’industriosità del Nord Italia, in particolare di Vigevano, e le persone che durante e dopo la guerra hanno contribuito all’industrializzazione di massa del paese.

Mastronardi è lombardo a metà: la madre è del posto ma il padre è abruzzese e comunque nasce a Vigevano nel 1930. Il carattere difficilmente gestibile gli impedisce di avere un percorso scolastico “tranquillo”, tuttavia consegue il diploma di maestro elementare e nel 1955 diventa insegnante di ruolo.  In quegli anni si butta nella narrativa e prepara alcune bozze di romanzi. Nel frattempo conosce Elio Vittorini, che vede in Mastronardi un brillante scrittore e lo esorta a concludere il lavoro iniziato. Lucio completa quindi una trilogia composta da II calzolaio di Vigevano (1962), Il maestro di Vigevano (1962) e Il meridionale di Vigevano (1964).

Il primo libro racconta la storia di Micca e la moglie Luisa, calzolai di vecchia data che lavorano giorno e notte per i danè  e per diventare un giorno sciur. Vigevano è la capitale della scarpa e gli abitanti son tutti occupati in questo settore, dai signori che passeggiano in Piazza Ducale facendo sfoggio della propria ricchezza, agli sporchi e invidiosi operari che bucano suole. Farsi la fabbrichetta è il sogno di tutti, ma ognuno deve combattere la spietata concorrenza altrui e star sempre attento a non farsi copiare i modelli, perchè il capitalismo non risparmia colpi bassi. Dalle ordinazioni della Grande Guerra all’immediato dopoguerra, nel racconto si vede il crescere e il decrescere del mercato, portando con sè i drammi di questa gente attenta solo al denaro e alla sopraffazione del prossimo. La scarpa ha quindi fatto la ricchezza di Vigevano così come la propria miseria.

Scritto in dialetto vigevanese, a volte ermetico e difficile da capire, lo scrittore ci porta dentro questo mondo e ci fa vedere gli aspetti sociali, economici e politici di quel tempo attraverso i dialoghi del popolo. Lo stesso popolo delle generazioni d’oro che hanno precorso il boom del dopoguerra.

Insomma, il nostro Mastronardi dipinge questo quadro a tratti impietoso ma sicuramente di grande valore, e ci regala un’opera che aiuta a farci capire cosa siamo stati e come non siamo (quasi) più. Un libro leggero, veloce ma sopratutto prezioso.