L’origine dei Broccoli e perchè fanno così bene.

Tutto ebbe origine con gli Etruschi che amavano e coltivavano cavoli, senza tuttavia farli mancare agli Antichi Greci, Fenici, Siciliani, Sardi e Corsi con cui commerciavano frequentemente. Parliamo di antiche civiltà, che tuttavia utilizzavano in cucina i cavoli per le loro proprietà nutrizionali e il loro gusto unico. Anche gli Antichi Romani impazzivano per questa verdura, tanto che persino il naturalista Plinio il Vecchio, vissuto tra il 23 e il 79 d.c. ci racconta come questa civiltà coltivasse e cucinasse cavoli. In un ottica di ricerca della bontà in tavola, qualità che si è trasmessa poi nei moderni italiani, gli antichi romani crearono una varietà chiamata broccolo calabrese.

Questo è il vegetale, appartenente alla famiglie delle brassicacee, che oggi troviamo nei nostri supermercati. Apicio, noto gastronomo dell’Antica Roma, ci da un’idea su come preparare i broccoli: “Farli bollire e successivamente passarli in pentola con dei semi di coriandolo, cipolle affettate, un filo d’olio e una spruzzata di vino“.

I broccoli rimasero un alimento sconosciuto al di fuori dello stivale fino al 1533, quando Caterina de Medici sposò Enrico II,  introducendoli probabilmente per la prima volta in Francia. Da allora si diffusero in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel diciottesimo secolo. I broccoli non divennero tuttavia popolari nel nuovo mondo se non a partire dal 1922 quando due immigrati italiani da Messina portarono i semi in California e incominciarono a distribuirli nelle varie città.

Ma a chi piacciono i broccoli? Molti non possono neppure sentirne parlare. E’ un peccato, perchè sono probabilmente uno degli alimenti più salutari che possiamo sperare di ingerire. Perchè? Non solo per l’apporto di vitamine del gruppo A, B, E, C, K e degli oligoelementi come il ferro, calcio magnesio, fosforo, potassio e molti altri, ma anche per le proprietà anticancerogene.

I broccoli infatti contengono sulforafano, uno dei più potenti anticangerogeni conosciuti dall’uomo e con proprietà antibatteriche, e l’Indolo-3-carbinolo, una molecola che promuove la riparazione del DNA. Per evitare di perdere queste importanti proprietà nutrizionali è meglio non bollire i broccoli ma cuocerli a vapore, in padella o nel microonde.

I broccoli sono quindi un alimento che fa molto bene alla salute ed è profondamente legato alla nostra storia e alla nostra cultura. Chi non li ama può quindi fare uno sforzo e provare questo interessantissimo vegetale, un po’ l’elisir di lunga vita che molti si affannano a cercare.

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Il pane di Altamura, una poesia di grano duro dall’entroterra pugliese.

Al giorno d’oggi non è difficile trovarlo in tutta Italia e chiunque ne ha assaggiato almeno una fetta, dopo averne sentito il profumo da diversi metri. Parliamo del pane di Altamura, che prende il nome del paese in provincia di Bari in cui è stato creato.

Nella sua forma bassa (detta a cappidde de prèvete, a cappello di prete) può essere considerato la concretizzazione dell’idea di pagnotta classica, ma lo si trova anche la forma alta: U sckuanète (pane accavallato). L’inconfondibile aroma è dato in parte da lievito madre con cui è prodotto, cioè un pezzo di pasta rimosso dalle precedenti preparazioni, messo a riposo e aggiunto alla nuova pasta.  In questo modo si conservano lieviti e batteri lattici anche per decenni, microrganismi che con la loro attività rendono acida la pasta. Per l’impasto viene utilizzata la semola di grano duro, che conferisce un sapore deciso al pane.

Il pane di Altamura è un prodotto della cucina popolare tipicamente italiana: le massaie preparavano l’impasto in casa, imprimendo un marchio sulla forma. L’impasto veniva raccolto con un carretto dal fornaio che provvedeva a cuocerlo e riconsegnarlo alle famiglie di appartenenza. Anni e anni di infornate hanno fatto il resto.

Dal 2005 ha ricevuto la DOP, il primo in Europa per questo settore. Come al solito il disciplinare prevede una serie di caratteristiche che rendono unico il pane di Altamura. Il grano duro utilizzato per la produzione deve provenire esclusivamente dai Comuni di Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge, in provincia di Bari.

Il consiglio è quindi di diffidare dalle imitazioni e decidere solo in che forma gustarlo!

Sul cibo non si risparmia!

I consumi delle famiglie continuano a calare e la classe media si restringe. Il fatturato diminuisce per le imprese dell’agroalimentare che hanno a che fare con il mercato interno, mentre cresce per chi riesce a esportare. Su questi due grandi soggetti economici pesa la crisi più grande che l’Italia repubblicana abbia mai conosciuto, e con essa anche i consumi stanno cambiando. Le famiglie decidono di spendere meno per il cibo, spesso acquistando prodotti di scarsa o scarsissima qualità.

Il ragionamento lo si fa confrontando il prezzo di un prodotto con un altro e, spesso a priori, si sceglie quello con il prezzo più basso. Un prezzo più alto non significa necessariamente qualità maggiore. Tuttavia, un’azione apparentemente semplice e ripetuta per milioni di volte sconvolge interi settori e favorisce un mondo di produttori che hanno poco interesse per la salute dei consumatori, il tutto all’insegna di un risparmio selettivo e non ragionato. Paradossalmente, la famiglia spesso acquista cibo scadente ma non si fa mancare l’ultimo modello di smartphone.

Questo modello è molto comune e non troviamo difficoltà a elencare più di un conoscente “vittima” di questo sistema. È ora di dire basta, dobbiamo essere i primi a cambiare. Oggi comprare made in Italy non vuol dire fare una mera azione patriottica. Significa scegliere prodotti soggetti a controlli frequenti e approfonditi, oliare il meccanismo della filiera e contribuire allo sviluppo di un settore chiave. Attenzione però, perchè la bassa qualità non ha nazionalità. Il consumatore consapevole sa quindi distinguere un prodotto di qualità da uno scadente, ed è a conoscenza dei meccanismi di tracciabilità del prodotto. In futuro parleremo anche di questo.

Tutti abbiamo sentito della manifestazione sul Brennero organizzata dalla Coldiretti, volta a protestare contro la carne e altri prodotti provenienti dall’Austria e in generale da paesi dove la qualità del cibo non rientra tra le preoccupazioni dei consumatori. In Italia la buona cucina non si riferisce solo alla ricetta, ma anche alla materia prima. La qualità dei prodotti che troviamo al supermercato è superiore rispetto a quella che possiamo trovare in un supermercato di uno stato nordeuropeo quasiasi. Oggi i produttori e il legislatore stanno spingendo sul biologico, che permette non tanto una qualità organolettica migliore quanto l’incentivo ad utilizzare meccanismi di difesa non invasivi come la lotta integrata, ed è quindi uno degli strumenti attraverso cui possiamo dare valore aggiunto ai nostri prodotti sul mercato nazionale e internazionale.

L’imperativo è chiaro e semplice: sul cibo non si risparmia. Facendo due conti, forse è meglio acquistare un cellulare (o qualsiasi altro bene non di prima necessità) con meno funzioni e di qualche mese più vecchio per investire coraggiosamente sulla propria salute e sul grande e complesso sistema economico creato dall’industria agroalimentare. Il patriottismo, al giorno d’oggi, lo si fa con piccole scelte quotidiane.

Il cibo è uno degli ingredienti “magici” che rendono speciale il nostro paese. Dobbiamo essere fieri della nostra tradizione e dei nostri prodotti. Dobbiamo esigere controlli e standard di qualità e sicurezza del cibo che acquisiamo. Se è vero che “siamo quello che mangiamo“, dobbiamo continuare ad essere un riferimento mondiale per i prodotti alimentari dobbiamo impegnarci a fare qualche sacrificio per il piacere del palato e per la salute del nostro corpo.

La Dotta Confraternita del Tortellino, dal 1965.

L’origine popolare della cucina italiana trova conferma nella storia e negli ingredienti delle  specialità locali che offrono le diverse regioni italiane. In Emilia-Romagna, tra le tante prelibatezze che offre questo regno del buon mangiare troviamo i turtléin . Nati come un mezzo gustoso per riciclare gli avanzi di carne, i tortellini sono stati creati dalle sapienti mani della lunga tradizione culinaria romagnola. Ci sono documenti che attestano la presenza di questo tipo di pasta nel Rinascimento, anche se il riconoscimento ufficiale è arrivato con gli scritti ottocenteschi del gastronomo Pellegrino Artusi. A livello territoriale, Modena e Bologna si sono contese a lungo la paternità della ricetta, anche se dopo aspri dibattiti la si è attribuita a Castelfranco Emilia, una città che sotto gli Este era in provincia di Bologna, ma che dopo il 1927 è passata in provincia di Modena.

La ricetta depositata tramite atto notarile impone che l’impasto sia a base di lonza di maiale, mortadella, prosciutto crudo e Parmigiano Reggiano. La sfoglia deve essere fatta con farina e uova, mentre il brodo deve essere fatto con carne di manzo, gallina ruspante, sedano, carote, cipolle e sale. Ufficialmente quindi i tortellini vanno in brodo. Chi è quindi che ha depositato questo atto notarile che vuole essere un manifesto a tutela di questo prezioso elemento della cucina locale? Dietro tutto ciò c’è la Dotta Confraternita del Tortellino.

«Chi altro se no?», direbbe qualcuno. La confraternita è stata fondata il 24 ottobre 1965 da Giovanni Poggi, un industriale con la passione per la cucina, assieme ad altri amici buongustai. All’inzio la Confraternita si era inserita nel dibattito per la difesa della “bolognesità” del tortellino, ma dopo la rifondazione del 1987 si è occupata della promozione di questa pasta organizzando convegni, tavole rotonde ed eventi come l’annuale Convivio di Primavera. La sede è, e non potrebbe essere altrove, presso un ristorante di Bologna.

Questa associazione di liberi cittadini è un esempio per tutte le realtà locali. Non resta quindi da informarsi su iniziative simili nella città di residenza e magari entrare a farne parte. Tutelare e diffondere la cultura della buona tavola è la chiave per far crescere in valore uno dei settori di punta del presente e del futuro per il nostro paese, l’agroalimentare.

Filu ‘e ferru: la tradizione sarda del distillato.

Non è grappa. Non è solo acquavite. E’ un distillato, questo sì, ma il filu ‘e ferru ha una marcia in più: è intriso di tradizione sarda. Questo liquore, prodotto prevalentemente in provincia di Oristano, ha una curiosa storia che ben descrive la natura umana e la ricerca del piacere attraverso la buona tavola o, meglio, del buon bicchiere.

Il curioso nome deriva dal metodo utilizzato per nascondere il superalcolico soggetto ad una elevata tassazione: una volta distillato clandestinamente, questo veniva versato all’interno di bottiglie legate ad un filo di ferro. Per evitare di venire scoperti, le bottiglie venivano interrate e il filo di ferro serviva come traccia per dissotterrarle una volta scampato il pericolo. Oggi la produzione è disciplinata dalla legge, che vieta la distillazione casalinga e garantisce standard di qualità e sicurezza per quanto riguarda la produzione industriale.

La materia prima è il vino o la vinaccia rigorosamente sarda che viene distillata due volte, togliendone il capo e la coda per eliminare alcune sostanze sgradevoli. Dopo aver trascorso un anno in botti di rovere si ottiene del Filu e’ Ferru al 40% di alcool, ricco di quegli aromi particolari che ben si inchiodano nella nostra memoria dopo il primo sorso.

L’interesse per questo distillato sta crescendo notevolmente tra gli estimatori, ma può essere un ottimo punto di partenza per chi vuole scoprire l’alcolico mondo di grappe e acquaviti. Con l’export dei distillati in aumento ma brutti risultati sul mercato interno, è bene andare a riscoprire le nostre produzioni e magari dare una mano all’economia dell’isola ancora in convalescenza per il violento nubifragio della scorsa settimana.

Enrico Panattoni, l’inventore della Stracciatella.

Quando siamo in coda dal gelataio, mentre scorriamo con gli occhi i vari gusti del gelato ripassiamo spesso sul fior di latte. Un gusto dal nome fresco e dal sapore delicato, dato dall’abbondante panna e dalla dolcezza dello zucchero. Ma come rendere ancora più buono il fior di latte? è una domanda che si deve essere fatto Enrico Panattoni, mentre sperimentava un nuovo gusto presto entrato nell’olimpo del gelato: la Stracciatella.

Nel 1953 a Bergamo alta Panattoni apriva il bar “La Marianna” e incominciava a vendere gelati riempiti con la nuova invenzione. La novità ha conquistato presto tutta l’Italia e le gelaterie hanno incominciato a produrre la creazione di Panattoni, ma con la diffusione di massa si è perso anche il nome dell’inventore.

Pochi giorni fa è venuto a mancare, ma se possiamo gustare un fior di latte con pezzi di cioccolato croccanti che si sciolgono presto in bocca, è proprio grazie a questo signore. E’ doveroso salutarlo e ringraziarlo per tutti i momenti di godimento e meditazione che ci accompagnano mentre gustiamo dell’ottimo gelato.

Vini italiani contro vini australiani: su cosa bisogna migliorare.

Il primo post dopo la pausa estiva farà storcere il naso a qualcuno. Su cosa si possono confrontare due tradizioni vinicole così diverse l’una dall’altra, se non sulla qualità organolettica del vino? Ebbene, in ambiente internazionale, un buon Sassicaia è meno piacevole -agli occhi- di uno Yellow Tail.

Questione di etichetta, certo. Ma se è vero che mangiamo (e beviamo) con gli occhi, oggi il design del prodotto sta diventando centrale nel mercato globale, e spesso non primeggiamo sotto questo punto di vista. Ci sono molti esempi di etichette italiane molto curate , ma purtroppo molti vini nostrani sono ancora vittime di un’idea di bottiglia troppo provinciale.

Se vogliamo che i vini italiani compaiano sugli scaffali di rivenditori sparsi per il globo, bisogna cambiare strategia. Allora meglio puntare ad un’etichetta classica, puntando sulla tradizione, o lanciarsi nel vivace terreno del design moderno?