Italia nello Spazio: la Stazione Spaziale Internazionale.

Ci siamo già occupati di scienza e di quanto questa abbia influenzato la nostra storia e la nostra cultura. Galileo, Leonardo, Cardano, Fermi, Natta e moltissimi altri sono i personaggi che hanno contribuito al progresso scientifico e onorato l’Italia con le proprie scoperte. Ma la scienza non è fatta solo da grandi uomini.

Al giorno d’oggi la scienza è fatta da organizzazioni, da aziende specializzate e da moltissimi ricercatori, ingegneri e tecnici dalle grandi capacità e di esperienza provata. Gli italiani possono essere orgogliosi di guardare le stelle e vedere un prodigio della tecnologia orbitare sopra le loro teste. Iniziamo a raccontare l’Italia nello spazio con la Stazione Spaziale Internazionale.

Questa struttura modulare, orbitante tra i 278 km e i 460 km di altezza alla velocità di 27.743,8 km/h, è stata iniziata nel 1998 e verrà probabilmente ultimata quest’anno. Su questa grande struttura orbitante sono stati fatti numerosi esperimenti, ma ciò che la rende speciale è la partecipazione di numerosissimi Paesi riuniti nelle rispettive Agenzie spaziali come Nasa, Esa, Jaxa ecc.

Come si inserisce l’Italia in questo panorama? Uno, per aver mandato due astronauti, Paolo Nespoli e Luca Parmitano sulla ISS, a cui si aggiungerà alla lista Samantha Cristoforetti, la prima donna italiana ad andare nello spazio dal prossimo Novembre 2014. Secondo, per aver costruito buona parte della Stazione Spaziale Internazionale in provincia di Torino. La Joint Venture italo-francese Thales Alenia Space, per conto dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha infatti costruito i moduli Harmony, Tranquility, la bellissima Cupola che ha permesso di scattare foto spettacolari e controllare meglio le missioni all’esterno, e per finire diversi moduli logistici compreso l’Atv, un veicolo per i rifornimenti. Il contributo dell’italia ha ormai superato il mezzo miliardo di euro, riuscendo a distinguersi tra paesi con Agenzie Spaziali da budget, c’è da dirlo, astronomici.

Ma non è solo tecnologia che orbita sopra la terra, è anche agroalimentare. “Cosa c’entra?” direbbe qualcuno. Ebbene, persino l’acqua che bevono gli astronauti è Torinese. I russi amano l’acqua che sgorga dai pozzi di corso Marche, mentre gli americani quella della Pian della Mussa. Con questo biglietto da visita abbiamo aperto la sezione Italia nello Spazio, una sezione che arricchirà la parte scientifica di Italiaiocisono mostrando le fatiche e gli onori di un settore tecnologicamente molto avanzato, dove riusciamo a fare meraviglie.

E’ quindi nostro compito diffondere i frutti del lavoro dell’Italia che lavora, in silenzio, facendo vera innovazione. Il futuro sarà nell0 spazio, dall’estrazione di minerali dagli asteroidi al turismo spaziale. In questo affascinante campo c’è Italiaiocisono e ci siete voi lettori, il conto alla rovescia è incominciato.

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Sul cibo non si risparmia!

I consumi delle famiglie continuano a calare e la classe media si restringe. Il fatturato diminuisce per le imprese dell’agroalimentare che hanno a che fare con il mercato interno, mentre cresce per chi riesce a esportare. Su questi due grandi soggetti economici pesa la crisi più grande che l’Italia repubblicana abbia mai conosciuto, e con essa anche i consumi stanno cambiando. Le famiglie decidono di spendere meno per il cibo, spesso acquistando prodotti di scarsa o scarsissima qualità.

Il ragionamento lo si fa confrontando il prezzo di un prodotto con un altro e, spesso a priori, si sceglie quello con il prezzo più basso. Un prezzo più alto non significa necessariamente qualità maggiore. Tuttavia, un’azione apparentemente semplice e ripetuta per milioni di volte sconvolge interi settori e favorisce un mondo di produttori che hanno poco interesse per la salute dei consumatori, il tutto all’insegna di un risparmio selettivo e non ragionato. Paradossalmente, la famiglia spesso acquista cibo scadente ma non si fa mancare l’ultimo modello di smartphone.

Questo modello è molto comune e non troviamo difficoltà a elencare più di un conoscente “vittima” di questo sistema. È ora di dire basta, dobbiamo essere i primi a cambiare. Oggi comprare made in Italy non vuol dire fare una mera azione patriottica. Significa scegliere prodotti soggetti a controlli frequenti e approfonditi, oliare il meccanismo della filiera e contribuire allo sviluppo di un settore chiave. Attenzione però, perchè la bassa qualità non ha nazionalità. Il consumatore consapevole sa quindi distinguere un prodotto di qualità da uno scadente, ed è a conoscenza dei meccanismi di tracciabilità del prodotto. In futuro parleremo anche di questo.

Tutti abbiamo sentito della manifestazione sul Brennero organizzata dalla Coldiretti, volta a protestare contro la carne e altri prodotti provenienti dall’Austria e in generale da paesi dove la qualità del cibo non rientra tra le preoccupazioni dei consumatori. In Italia la buona cucina non si riferisce solo alla ricetta, ma anche alla materia prima. La qualità dei prodotti che troviamo al supermercato è superiore rispetto a quella che possiamo trovare in un supermercato di uno stato nordeuropeo quasiasi. Oggi i produttori e il legislatore stanno spingendo sul biologico, che permette non tanto una qualità organolettica migliore quanto l’incentivo ad utilizzare meccanismi di difesa non invasivi come la lotta integrata, ed è quindi uno degli strumenti attraverso cui possiamo dare valore aggiunto ai nostri prodotti sul mercato nazionale e internazionale.

L’imperativo è chiaro e semplice: sul cibo non si risparmia. Facendo due conti, forse è meglio acquistare un cellulare (o qualsiasi altro bene non di prima necessità) con meno funzioni e di qualche mese più vecchio per investire coraggiosamente sulla propria salute e sul grande e complesso sistema economico creato dall’industria agroalimentare. Il patriottismo, al giorno d’oggi, lo si fa con piccole scelte quotidiane.

Il cibo è uno degli ingredienti “magici” che rendono speciale il nostro paese. Dobbiamo essere fieri della nostra tradizione e dei nostri prodotti. Dobbiamo esigere controlli e standard di qualità e sicurezza del cibo che acquisiamo. Se è vero che “siamo quello che mangiamo“, dobbiamo continuare ad essere un riferimento mondiale per i prodotti alimentari dobbiamo impegnarci a fare qualche sacrificio per il piacere del palato e per la salute del nostro corpo.

La Dotta Confraternita del Tortellino, dal 1965.

L’origine popolare della cucina italiana trova conferma nella storia e negli ingredienti delle  specialità locali che offrono le diverse regioni italiane. In Emilia-Romagna, tra le tante prelibatezze che offre questo regno del buon mangiare troviamo i turtléin . Nati come un mezzo gustoso per riciclare gli avanzi di carne, i tortellini sono stati creati dalle sapienti mani della lunga tradizione culinaria romagnola. Ci sono documenti che attestano la presenza di questo tipo di pasta nel Rinascimento, anche se il riconoscimento ufficiale è arrivato con gli scritti ottocenteschi del gastronomo Pellegrino Artusi. A livello territoriale, Modena e Bologna si sono contese a lungo la paternità della ricetta, anche se dopo aspri dibattiti la si è attribuita a Castelfranco Emilia, una città che sotto gli Este era in provincia di Bologna, ma che dopo il 1927 è passata in provincia di Modena.

La ricetta depositata tramite atto notarile impone che l’impasto sia a base di lonza di maiale, mortadella, prosciutto crudo e Parmigiano Reggiano. La sfoglia deve essere fatta con farina e uova, mentre il brodo deve essere fatto con carne di manzo, gallina ruspante, sedano, carote, cipolle e sale. Ufficialmente quindi i tortellini vanno in brodo. Chi è quindi che ha depositato questo atto notarile che vuole essere un manifesto a tutela di questo prezioso elemento della cucina locale? Dietro tutto ciò c’è la Dotta Confraternita del Tortellino.

«Chi altro se no?», direbbe qualcuno. La confraternita è stata fondata il 24 ottobre 1965 da Giovanni Poggi, un industriale con la passione per la cucina, assieme ad altri amici buongustai. All’inzio la Confraternita si era inserita nel dibattito per la difesa della “bolognesità” del tortellino, ma dopo la rifondazione del 1987 si è occupata della promozione di questa pasta organizzando convegni, tavole rotonde ed eventi come l’annuale Convivio di Primavera. La sede è, e non potrebbe essere altrove, presso un ristorante di Bologna.

Questa associazione di liberi cittadini è un esempio per tutte le realtà locali. Non resta quindi da informarsi su iniziative simili nella città di residenza e magari entrare a farne parte. Tutelare e diffondere la cultura della buona tavola è la chiave per far crescere in valore uno dei settori di punta del presente e del futuro per il nostro paese, l’agroalimentare.

Filu ‘e ferru: la tradizione sarda del distillato.

Non è grappa. Non è solo acquavite. E’ un distillato, questo sì, ma il filu ‘e ferru ha una marcia in più: è intriso di tradizione sarda. Questo liquore, prodotto prevalentemente in provincia di Oristano, ha una curiosa storia che ben descrive la natura umana e la ricerca del piacere attraverso la buona tavola o, meglio, del buon bicchiere.

Il curioso nome deriva dal metodo utilizzato per nascondere il superalcolico soggetto ad una elevata tassazione: una volta distillato clandestinamente, questo veniva versato all’interno di bottiglie legate ad un filo di ferro. Per evitare di venire scoperti, le bottiglie venivano interrate e il filo di ferro serviva come traccia per dissotterrarle una volta scampato il pericolo. Oggi la produzione è disciplinata dalla legge, che vieta la distillazione casalinga e garantisce standard di qualità e sicurezza per quanto riguarda la produzione industriale.

La materia prima è il vino o la vinaccia rigorosamente sarda che viene distillata due volte, togliendone il capo e la coda per eliminare alcune sostanze sgradevoli. Dopo aver trascorso un anno in botti di rovere si ottiene del Filu e’ Ferru al 40% di alcool, ricco di quegli aromi particolari che ben si inchiodano nella nostra memoria dopo il primo sorso.

L’interesse per questo distillato sta crescendo notevolmente tra gli estimatori, ma può essere un ottimo punto di partenza per chi vuole scoprire l’alcolico mondo di grappe e acquaviti. Con l’export dei distillati in aumento ma brutti risultati sul mercato interno, è bene andare a riscoprire le nostre produzioni e magari dare una mano all’economia dell’isola ancora in convalescenza per il violento nubifragio della scorsa settimana.

L’evoluzione della Vespa dal 1943 al 2013.

Oggi andare in giro con una Vespa d’altri tempi è un lusso che pochi si possono permettere. L’ASI predispone addiritura un registro di moto d’epoca, un meccanismo burocratico che tutela un prodotto entrato nella storia d’Italia parallelamente al boom del dopoguerra. L’origine del nome lo si fa risalire ad un acronimo (Veicoli Economici Società Per Azioni) ma chi ci vuole vedere più poesia sostiene che Enrico Piaggio, dopo aver sentito il rumore prodotto dal motorino abbia urlato: «sembra una vespa.

Era il 1946 quando è stato brevettato il modello progettato dal geniale ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio, e da allora la Vespa è entrata nell’immaginario comune. Per noi millennials la Vespa è una sola. “Abominio!” Direbbe qualcuno. La Vespa è una famiglia, allargata, i cui “figli” seguono la moda del momento e la creano. Cambiano le linee, si alza la sella, le ruote si allargano. Come fare per seguire le trasformazioni del motorino per antonomasia? Ecco che i parigini Nomoon ci vengono in soccorso presentandoci Vespalogy: un video davvero ben fatto sull’evoluzione del celebre modello.

Gli operai Piaggio in mostra.I creatori ci tengono a sottolineare che non si tratta di una pubblicità, bensì di una dichiarazione d’amore per un motorino che ha conquistato l’Italia e il mondo. Una bella ventata di aria fresca di questi tempi per ricordarci che anche noi sapevamo e sappiamo fare grande industria, quella che crea prodotti innovativi che piacciono a noi e a chi ama il nostro stile di vita.

Lardo di Colonnata, l’antico salume toscano.

Addentare un pezzo di pane ripeno di Lardo di Colonnata, seduti su una delle panchine che affollano i belvedere sulle montagne scavate attorno a Massa Carrara è un trionfo sensoriale difficile da dimenticare. L’esperienza gustativa di questo prezioso alimento è molto intensa: le spezie e gli aromi sciolti nel tiepido e abbondante grasso si spandono armoniosamente nel nostro palato.

L’origine del Lardo di Colonnata è forse da ricercare al tempo dei Comuni, anche se c’è chi li fa risalire agli Antichi Romani o agli Antichi Greci. Dal 2004 è protetto dal disciplinare IGP, che ne limita la produzione nei pressi di Colonnata, una frazione di Carrara. Qui le cave di marmo fanno da sfondo al paesaggio e le troviamo in ogni aspetto della vita del luogo: proprio il marmo è utilizzato per creare le vasche di stagionatura del Lardo, dette conche. Il disciplinare impone che la carne provenga da suini di alcune regioni del nord e centro Italia, e che il taglio utilizzato sia la parte adiposa sulla schiena del maiale.

Nelle conche di marmo incomincia la stagionatura, con un articolato sistema di insaporimento con spezie: dopo aver strofinato la parte con aglio vengono aggiunti sale, rosmarino, pepe, aglio sbucciato e occasionalmente alcune spezie dall’anice stellato al coriandolo. Una serie successiva di aggiunta di spezie precede la chiusura della conca con una lastra di marmo. Qui il saporito salume riposa per sei mesi, abbastanza perchè tutto il buono delle spezie venga trasferito al grasso.

Il consumo può avvenire tagliando a fette sottili e scaldandole appena perchè si sciolgano, altrimenti può essere usato per preparare ricette a prova di osteria. Il Lardo di Colonnata è un alimento che è tanto buono quanto poco salutare, vista la percentuale altissima di grassi e quindi calorie: circa 900 kcal per 100 grammi. Tuttavia questi numeri non ci spaventano, e come al solito un consumo secondo buonsenso fa sì che questo salume richiami all’attenti tutte le nostre papille gustative e faccia scivolare la nostra mente sui marmi bianchi delle splendide montagne su cui viene concepito.

“Storia dell’industria in Italia” di Nicola Crepax

Copertina 08408Avete visitato Crespi d’Adda e le periferie torinesi, avete letto delle grandi acciaierie del sud Italia e dei distretti industriali. Ma cosa lega tutte queste attività, perchè alcune fioriscono e altre rimangono cattedrali nel deserto? Una risposta, concisa ma esauriente, la troviamo nel libro Storia dell’industria in Italia” di Nicola Crepax. Il libro inizia ai tempi della Belle Èpoque, descrivendo un paese speranzoso e non segnato dalle grandi guerre mondiali, un’Italia che guarda alla nascente industrializzazione di paesi virtuosi e incomincia muovere i primi passi verso quella direzione.

L’industria italiana viene descritta dagli inizi della propria storia fino alla fine del Ventesimo secolo. Un settore che ha spesso importato innovazioni sviluppate altrove alternando clamorosi fallimenti a grandi successi, subendo crisi e godendosi periodi di sviluppo che, a conti fatti, hanno contribuito a creare il benessere ai tempi del boom economico del dopoguerra. L’analisi dell’acquisto di macchinari da parte delle aziende viene seguita da quella dei dati demografici, le trasformazioni nella società operata dal consumismo post-bellico viene messa in relazione con un nuovo paradigma aziendale che cambia ulteriormente il volto del capitalismo italiano. Quello che ne esce è un percorso fatto di uomini, di imprese e di prodotti (come indica il sottotolo del libro) che sono protagonisti dell’emozionante avventura industriale del nostro paese.

Tra le righe si intuiscono le forze e le debolezze strutturali non solo della nostra economia, ma anche della nostra società. Si può intravedere persino il germe della grande crisi della fine degli anni ’10 del duemila (bisogna abituarsi ormai a considerarla di portata storica) e tuttora in corso. Il libro è scritto da Nicola Crepax, docente all’Università Bicocca di Milano e dell’Università di Castellanza, ed è un ottimo punto di partenza per capire le origini del made in Italy e le condizioni del tessuto economico nazionale alle prese con la globalizzazione.